GIUSEPPE BRANCATISANO

Salve, mi chiamo Brancatisano Caterina e vivo a Pistoia, in Toscana. Vi scrivo nella speranza che possiate esaudire il mio desiderio.

Mio padre si chiamava Giuseppe, era nato a Samo nel 1931, era figlio di Giovanni ( Bastiano) e Francesca Celentano. Mio padre dovette emigrare per sopravvivere, come tanti altri e tornava in Calabria appena poteva portandosi dietro tutta la famiglia. Lui amava spasmodicamente la sua terra ed era un dolore immenso doverle stare lontano. Quando tornava era come se rinascesse ed era felice. Purtroppo varie vicissitudini gli hanno impedito di tornare stabilmente la' dove era nato e un assurdo accadimento lo ha sottratto per sempre a questa vita nel 2010 a 79  anni. Sfogliando il vostro sito non ho trovato traccia di lui se non una foto in cui sono ritratti i miei nonni, questo mi dispiace molto perche' l'amore che lui aveva per questa terra era veramente grande. Vi chiedo se posso inviarvi delle foto di lui, magari anche qualche vecchia foto di Samo che ho ritrovato e se vi facesse piacere, vi invierei anche alcuni brani da me scritti sulle storie che mio padre mi raccontava della sua infanzia. Ho questa urgenza di far si che il suo passaggio non si perda nel tempo, vorrei lasciare qualche sua traccia, un segno della sua esistenza perche' era un buon uomo anche se burbero e non sempre capace di coltivare i rapporti umani con i suoi compaesani, era un gran lavoratore e marito innamorato fino alla fine dei suoi giorni, era mio padre, colui che mi ha istillato l'amore per la Calabria e per le nostre origini. Io non sono nata a Samo, vi ho vissuto qualche estate ed ho dei ricordi bellissimi e so che appartengo a questa terra e a chi me lo chiede io dico con orgoglio di essere una calabrese.

 


Il bambino che guardava le capre

(una storia vera)

“A mio padre, istillatore di vita e di parole, il cui nome come eco sempre ritornerà”

 (L’anziano uomo accolse con gioia e sollievo la richiesta di sua figlia, si sedette attorno al tavolo del salotto, mentre sua moglie armeggiava in cucina e iniziò a raccontare).

“Faceva un gran freddo quella notte lungo la strada che portava verso le montagne, il piccolo Giuseppe si era appena lasciato alle spalle il paese e si cullava al ritmo lento dell’asinello che cavalcava, un piccolo esemplare bruno dalle grandi orecchie, che suo padre aveva acquistato poco tempo prima.

Erano cresciuti insieme lui ed Enrico (così lo aveva battezzato), era divenuto il suo compagno di giochi ed adesso di viaggio, sicuro, affidabile, esperto conoscitore della strada verso il pascolo.

Il piccolo bimbo di otto anni si stringeva alla copertina striminzita e lisa, cercando di scaldarsi al tepore dell’animale e pensava ai suoi fratelli che stavano ancora dormendo, a quel rassicurante calore dei loro corpi vicini sul giaciglio di paglia d’orzo accanto al fuoco. Si era alzato di malavoglia,  ma doveva andare a pascolare le capre, loro unico mezzo di sostentamento, lui  era il primogenito e a lui spettava questo compito.

Enrico procedeva lentamente, era buio e Giuseppe si domandava come l’asinello potesse essere così sicuro del percorso, d’altra parte aveva molta fiducia in lui, sapeva di non correre pericoli con Enrico, ne aveva avuto la certezza giorni addietro.

Infatti,  dopo un lungo periodo di pioggia, mentre stava percorrendo la stessa strada, alla stessa ora, il piccolo asino si era fermato all’improvviso e non si era più mosso. Giuseppe inutilmente lo aveva incitato a proseguire, Enrico sembrava aver messo radici, quando poi, sfinito, era sceso a terra, il bambino si era accorto della frana che si era creata davanti al loro cammino, era caduto in ginocchio per la paura coprendosi il viso con le mani e rimanendo semi-paralizzato.

Aveva poi accarezzato a lungo l’animale guardandolo teneramente negli occhi ed aveva avuto la certezza che quel legame che li univa era divenuto più forte, si sentiva fortunato e felice. Anni dopo scoprì che, grazie a quest’istinto degli asini, gli uomini avevano modellato le montagne, ricavandovi le strade che noi oggi vediamo: serpentine sicure che si arrotolano sui fianchi dei monti, Giuseppe ne fu orgoglioso ricordandosi di quel giorno.

Perso nei suoi pensieri, non si era accorto di essere già arrivato, era ancora buio e scorse la sagoma di suo padre nell’oscurità, venirgli incontro, mentre si chiudeva la giacca consunta e strappata.

Il bimbo scese dall’asino e s'incamminò verso la capanna, accennando un saluto con la mano, ascoltò ancora le raccomandazioni del padre che si stava allontanando e si sedette sotto l’enorme quercia vicino alla capanna.                                                                                                                 

Il buio era fitto ed era molto freddo, aveva fatto entrare Enrico nella capanna e lui aspettava fuori che albeggiasse, per poter liberare le caprette dal recinto e portarle al pascolo. Fissava il buio con i suoi grandi occhi scuri svegli e curiosi, passandosi una mano fra i fitti riccioli, facevano freddo, troppo freddo, cercò di resistere ancora, rannicchiandosi ancor di più, ma quando iniziò a non sentire più sensibilità alle dita dei piedi, si alzò velocemente e si rifugiò nella capanna.

Entrando vide Enrico in un angolo che lo stava fissando, di fronte a lui la mucca Primavera stava ruminando ed anche lei lo guardava, Giuseppe si diresse verso l’asinello e lo accarezzò, avvertì il calore dell’animale e si strinse a lui per scaldarsi, si sentì meglio, molto meglio, il respiro dei due animali evaporava nell’aria formando una nebbiolina bianca, calda ed evanescente.

Il piccolo si sedette fra  loro e ne fu avvolto, scivolò ,quasi senza accorgersene, sulla terra battuta e si addormentò proprio come Gesù nella mangiatoia, il suo giovane viso assunse un’espressione di beatitudine, sicuramente stava sognando di mangiare qualcosa.

Fu svegliato all’improvviso da un bruciore lancinante alle gambe, che lo fecero risalire velocemente al suo risveglio, stordito e confuso realizzò immediatamente cosa stava succedendo: suo padre si ergeva su di lui, vibrando in aria la cinghia dei pantaloni, urlando come un pazzo, avrebbe già dovuto essere partito per il pascolo!

Riuscì a schivare un altro colpo sgattaiolandogli fra le gambe e scappò fuori della capanna correndo con le capre verso il sentiero che portava al pascolo.

Le incitò, mentre correva e quando fu sicuro di essere ad una distanza considerevole, si fermò per riprendere fiato  e si toccò le gambe che bruciavano di dolore, facevano male, la pelle era marchiata, si toccò ancora trattenendo le lacrime.

Non riusciva ad odiare suo padre, nonostante quell’avvenimento, era un uomo burbero ma buono, un gigante di un metro e novanta , corpulento e irrascibile ma che amava profondamente la sua famiglia.

Si era sacrificato molto per riuscire a sfamarli, lo aveva visto quasi piangere, quando, tempo addietro, non era riuscito a procurarsi un po’ di cibo per sfamare i suoi figli simili a uccellini nel nido con la bocca aperta che attendono il ritorno della madre. Nei primi anni 30 del 1900, nella profonda Calabria, laggiù proprio in punta allo stivale, questa era quotidianità.

Arrivò al pascolo che il sole era già alto e iniziava a farsi sentire, in prossimità del bosco si fermò, assicurandosi che gli animali avessero erba sufficiente da brucare e si sdraiò sotto un enorme pino, esausto, dolorante e affamato.

Il dolore che ancora avvertiva, passò in secondo piano, sostituito dall’enorme vuoto che avvertiva nello stomaco, aveva una gran fame e all’improvviso si accorse che, nella fuga, non aveva preso il piccolo sacco di juta che sua madre gli aveva dato ed in cui c’era il pane con la ricottina salata. Si sentì perduto, lo stomaco brontolava e faceva quasi male, non riusciva più a pensare, si guardava intorno smarrito, alla ricerca di qualsiasi cosa che potesse essere commestibile, quando incontrò lo sguardo della capretta più anziana del gregge.

Era un bel esemplare,  forte e feconda, due strisce bianche le attraversavano il muso, il pelo rossiccio era corto e lucido e aveva mammelle cariche di latte, dato il recente parto.

Un pensiero attraversò la mente del pastorello, forse trasmesso incredibilmente dalla capra, si avvicinò a lei e l’accarezzò, la capra rispose alle sue carezze dando colpetti di testa contro la mano e si sdraiò accanto a lui.

Giuseppe capì immediatamente, si sdraiò fra le sue zampe e iniziò a bere il latte attaccandosi alla mammella che l’intelligente e materno animale gli offriva fino a che non si sentì sazio, infine si alzò e si asciugò la bocca con il dorso della mano, accarezzandola ancora con gratitudine. Si sentì felice e corse a giocare con i capretti suoi fratelli di  latte, non dimenticando però di tenere unito il gregge.”

(L’anziano signore finì il suo racconto, molto tempo era passato da allora, aveva acquietato la sua atavica  fame ma non dimenticava quei giorni, li ripercorreva emotivamente mentre li raccontava alla figlia.

Le immagini evocate, permanevano davanti ai suoi occhi, indelebili, cataratte di vita vissuta impossibili da rimuovere. I suoi occhi erano stanchi, la fitta coltre di ricci ormai un ricordo e pochi radi capelli bianchi adornavano la sua testa, ma ricordava bene quei giorni, la fame patita, i sacrifici e il freddo, la povertà e i suoi animali.

Si ricordò d' Enrico, che dopo quaranta anni, al suo ritorno in paese dopo il servizio militare, lo aveva riconosciuto ed era quasi impazzito ragliando a più non posso. La mucca Primavera e la capretta Rossa Petrola erano morte da tempo ma ancora vive nel suo cuore.

Si alzò affermando che sarebbe andato a riposare, in realtà non voleva che sua figlia lo vedesse piangere di commozione e sparì dietro la porta della camera da letto, lasciando che le lacrime finalmente scorressero sul suo volto).